I labirinti mafiosi della provincia torinese di Giulia Panepinto

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di Giulia Panepinto*

Uno degli elementi di forza delle mafie risiede nella diffusa ignoranza sul fenomeno. La mafia è forte anche perché non se ne conoscono gli aspetti deboli. Per questo motivo nella mia tesi ho analizzato la rappresentazione sociale della ’ndrangheta fra gli studenti e le studentesse delle principali scuole superiori del Canavese.
Questo territorio si trova in provincia di Torino e nel 2011 è stato protagonista dell’”operazione Minotauro”, una fra le più importanti inchieste antimafia condotte nel Nord Italia.
Il caso del Canavese ha dimostrato come una rappresentazione sociale semplicistica del fenomeno mafioso condivisa dalla collettività e dalle istituzioni possa influire negativamente nell’azione di contrasto.
La presenza mafiosa rischia di non essere percepita dalla comunità come un problema da risolvere, ma come qualcosa da scansare con bonaria serenità. La qualità delle rappresentazioni infatti è vitale perché determina le reazioni sociali: l’impreparazione o la sottostima possono favorire la forza delle mafie. Ho scelto quindi di indagare l’immaginario mafioso dei giovani canavesani somministrando un questionario a 1.054 studenti e studentesse fra i 17 e i 21 anni di età.
Dai dati emersi, la mafia viene rappresentata come un networks di relazioni di potere, un potere non sempre materiale. L’immaginario mafioso condiviso dagli studenti non possiede elementi celebrativi o consensuali. Infatti, anche se emerge l’idea di mafia come mezzo di affermazione sociale, c’è la consapevolezza che esista una stratificazione sociale all’interno dei gruppi mafiosi.
Agli studenti è stato chiesto di indicare i Comuni in cui percepivano una presenza mafiosa, e ne è emersa una mappa che ricalca quella ricostruita nel processo Minotauro. A Cuorgnè, Chivasso, San Giusto Canavese, Volpiano la presenza è sentita concretamente: in effetti qui vi sono “locali” di ’ndrangheta. Lo stesso dicasi per i Comuni di Rivarolo Canavese e Leinì, amministrazioni sciolte e commissariate a seguito dell’inchiesta. Inoltre, per gli studenti il commissariamento di questi due Comuni è da ritenersi una scelta giusta, perché secondo loro il rischio delle infiltrazioni mafiose era concreto.
Nei Comuni di Castellamonte, Ozegna, Salassa, Favria e Front, la presenza mafiosa è percepita a livelli minori. Eppure, secondo la Procura, anche questi Comuni sono sede del “locale” di ’ndrangheta “La bastarda”, denominato così poiché la sua esistenza non sarebbe stata riconosciuta dalla casa madre di San Luca, in Aspromonte. Al contrario, una percezione concreta della presenza mafiosa è avvertita anche nel Comune di Ivrea, nonostante non sia emersa qui l’esistenza di un “locale” di ’ndrangheta.
Questo dato è importante perché dimostra che non esistono isole felici.
Nella tesi ho infatti cercato di mostrare come la storia economica dell’area, ispirata dalla filosofia aziendale di Adriano Olivetti, abbia offerto una narrazione utile al negazionismo della presenza mafiosa nell’Eporediese. Ovviamente non si vuole portare questa ipotesi all’esasperazione considerando la mafia come una piovra presente ovunque; si è cercato invece di dimostrare che estremizzando alcuni aspetti che costituiscono un contesto (come il suo passato economico o la sua tradizione politica partecipativa) si possano favorire nell’immaginario collettivo tesi che sottovalutano il fenomeno.
Il senso comune ha infatti attribuito agli eporediesi una reputazione positiva di cittadini dal forte spirito civico. A Ivrea lo stabilimento Olivetti sarebbe stato un nodo importante nel tessuto sociale in cui è confluito e si è radicato questo senso di responsabilità collettiva. Una rete di cultura civica che il Canavese occidentale non sarebbe riuscito a elaborare per la mancanza di cooperazione politica e coordinazione economica fra i comuni che lo compongono. La filosofia olivettiana farebbe quindi da spartiacque fra un Canavese meno civico e uno più civico. Ma il campione non ha restituito questa immagine, e nell’immaginario degli studenti emergono diverse forme di “fare mafia” nel territorio.
Le differenze tra i due territori si riflettono sulla connotazione che gli intervistati associano al fenomeno mafioso. I residenti nel Canavese occidentale spiegano la presenza mafiosa assieme alle dinamiche della corruzione, mentre quelli eporediesi limitano il fenomeno ai suoi traffici illeciti. Per alcuni giovani di entrambi i gruppi la presenza della ’ndrangheta si concretizza per mezzo delle estorsioni, una questione che non trova spazio nel dibattito politico. Per i canavesani, anche le cause della presenza della ’ndrangheta vanno associate alla corruzione nel settore pubblico, nella classe politica e nell’imprenditoria locale. Questi sono gli elementi che favoriscono il salto di qualità dei gruppi ’ndranghetisti in Canavese, permettendo ad essi di muoversi dalla sfera dell’economia illegale a quella dell’economia formalmente legale.
Per quanto riguarda la rappresentazione mediatica, i ragazzi ritengono che la televisione restituisca un’immagine veritiera del fenomeno, soprattutto la serie tv Gomorra. È in questo momento che la mafia diventa forte, quando non ci si chiede se quello che vediamo (o sentiamo) sia vero, ma lo accettiamo così com’è. Infatti quel gruppo di studenti che per capire come funziona il fenomeno mafioso utilizza social networks, film e serie tv che non si basano su fatti storici, concepisce la mafia come mentalità violenta che appartiene unicamente agli abitanti del Mezzogiorno, una mafia che si occupa solo di narcotraffico ed è composta da affiliati ricchi e invincibili.
Una corretta rappresentazione sociale posseduta da cittadini attivi non può che riflettersi, come in un circolo virtuoso, anche nelle narrazioni mediatiche, da cui a sua volta può trarre beneficio il pubblico passivo di spettatori. Se ci perdiamo nei nostri labirinti cognitivi, senza il filo della conoscenza che ci guida, finiamo per essere sopraffatti dal Minotauro.

*Università degli Studi di Torino, relatore professore Rocco Sciarrone

Fonte: http://mafie.blogautore.repubblica.it/2018/08/18/2172/