PALERMO — Un tempo, sussurra ancora qualche boss, i picciriddi non si toccavano. Poi venne Riina e un bambino, Giuseppe Di Matteo, il viso solare di un picciriddu di 12 anni, fu sequestrato nel novembre 1993, recluso in gabbia per 26 mesi, infine strangolato e sciolto nell’acido.
Atroce orrore consumato all’ombra dei sanguinari Corleonesi di Cosa nostra. Eseguito dai macellai del quartiere palermitano Brancaccio, gli stessi adesso condannati a un risarcimento di 2,2 milioni di euro da versare alla mamma del bimbo, Francesca Castellese, e al fratello più piccolo, Nicola. Come stabilito dal Tribunale civile di Palermo, dal giudice Paolo Criscuoli, uno dei siciliani appena eletti al Csm. Autore di una sentenza che non prende in considerazione il padre della vittima, Santino Di Matteo, il pentito da zittire con il sequestro, secondo i falliti disegni di carnefici e registi dell’orrore fra i quali Totò Riina e i fratelli Giovanni ed Enzo Brusca. La sentenza risponde in pieno alle richieste fatte per conto di madre e fratello del piccolo Di Matteo dagli avvocati Michele Jeni e Monica Genovese. Appendice di una inchiesta ben più complessa. Centrata sui diretti responsabili condannati per l’omicidio, i boss di Brancaccio Giuseppe Graviano, Benedetto Capizzi, Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano, Luigi Giacalone e Gaspare Spatuzza, quest’ultimo pentito risultato prezioso in tanti processi fra Palermo e Caltanissetta. A loro viene addebitato il risarcimento che, non disponendo di beni (sequestrati), arriverà dal fondo speciale dello Stato per le vittime di mafia.
Soldi che non allevieranno la pena di una madre come la signora Castellese, in passato durissima col marito: «Non lo perdono perché è colpa sua se io ho perso il mio bambino. Ha sbagliato a pentirsi? Ha sbagliato a essere mafioso, ha sbagliato prima». Parole severe echeggiate anche in rari incontri pubblici con i giovani impegnati sul fronte antimafia, soprattutto quando viene ricordato il figlio sempre ritratto mentre monta a cavallo, la sua passione, al maneggio di Altofonte. Le stesse scuderie in cui fu attuato il sequestro-trappola. Come in un film. Con quattro finti poliziotti arrivati col sorriso sulle labbra. Un inganno. Mafiosi travestiti da agenti. Con la promessa di portarlo dal padre, allora sotto protezione in località segreta, come ricorda uno dei sequestratori, divenuto collaboratore di giustizia, Gaspare Spatuzza: «Agli occhi del bambino siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi. Lui era felice, diceva “Papà mio, amore mio”…».
Senza pietà, 26 mesi dopo, eseguirono l’ordine partito dal carcere il giorno in cui dalla tv lo stesso Brusca, forse non a caso chiamato dai suoi picciotti ‘u verru (il porco), aveva saputo della sua condanna al primo ergastolo per l’omicidio dell’esattore Ignazio Salvo, incastrato sempre da Di Matteo. Una pagina nera nella storia della mafia ora riletta in sede civile dove il giudice scrive che «è stata lesa la dignità della persona, il diritto del minore ad un ambiente sano, ad una famiglia, ad uno sviluppo armonioso, in linea con le inclinazioni personali, ad una istruzione». Tutto ciò che è stato negato al piccolo Giuseppe e a chi lo piange ancora.