Giornalisti aggrediti, ma a Roma «La mafia non c’è» di Lirio Abbate

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La nostra Floriana Bulfon e un collega Rai minacciati e inseguiti perché avevano osato entrare nel territorio dei Casamonica. Una nuova conferma del potere dei clan nella Capitale

di Lirio Abbate
Giornalisti aggrediti, ma a Roma «La mafia non c'è»

Raccontare le porcherie delle mafie, descrivere l’olezzo che si spande sui “loro” territori , rivelare le complicità di chi le protegge e le favorisce. È il lavoro dei giornalisti che si occupano di criminalità organizzata: andare di persona nei luoghi, parlare, conoscere, indagare, rischiare.

È quello che fa Floriana Bulfon, che da oltre dieci anni scrive per L’Espresso.

Bulfon segue con professionalità e precisione – “consumando le suole delle scarpe” – le vicende della criminalità organizzata di Roma. Grazie al suo racconto abbiamo potuto conoscere meglio i protagonisti di mafia Capitale: i loro affari, le loro ingerenze nell’economia della città e nella politica. Tra gli altri filoni su cui lavora, Floriana è andata ad accendere un faro anche sull’oscuro mondo dei Casamonica, nei quartieri controllati da questa famiglia. Che, almeno per il giudice per le indagini preliminari e per la procura, è una famiglia mafiosa.
E da mafiosi i Casamonica hanno reagito martedì 17 luglio, quando la nostra Floriana è entrata di nuovo nel “loro” territorio per raccontare gli ultimi eventi, la maxioperazione dei carabinieri contro di loro. L’anima selvaggia e aggressiva di questi mafiosi è venuta fuori di nuovo, con minacce, urla e inseguimenti verso la nostra cronista e la troupe del Tg2.

Per le mafie controllare i “propri” territori e garantirsi impunità al loro interno vuol dire anche impedire la libera informazione, costringerla al silenzio.

Ma Floriana – come questo giornale, che è casa sua – non staranno in silenzio. Lo ha dimostrato in passato e lo continuerà a fare in futuro. Soprattutto adesso che la pentola della malavita organizzata nella Capitale è stata scoperchiata dalla procura e dagli investigatori.

L’inchiesta sui Casamonica non è infatti la prima per mafia che viene conclusa a Roma. Il caso più noto è quello di Massimo Carminati, il capo di mafia Capitale. Quando Carminati è stato arrestato, però, dalle cantine ai salotti fino ai terrazzi della Roma bene in molti hanno tentato un distinguo sulla parola mafia, hanno aperto una disputa linguistica su questa definizione. Si sa che la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste.
Mentre venivano arrestati diversi componenti della famiglia Casamonica, nell’aula bunker di Rebibbia, davanti ai giudici della Corte d’appello, si celebrava il processo in secondo grado a Carminati e ai suoi compari di mafia Capitale. Anche in quell’aula, davanti a imputati accusati di associazione mafiosa, i giornalisti che hanno scritto su Carminati e Buzzi sono stati presi di mira, sono stati definiti «stampa cialtrona». Succede anche questo, a Roma, nei processi di mafia. Succede che chi racconta e documenta il metodo mafioso, le azioni violente, le sopraffazioni, le minacce e le incursioni di notte nel caveau di una banca, viene definito in un’aula di giustizia «stampa cialtrona».

È probabile che i clan preferiscano altri modi di fare giornalismo su di loro. La Commissione Antimafia presieduta nella scorsa legislatura da Rosy Bindi, ad esempio, ha dedicato ampio spazio al rapporto tra il mondo dell’informazione e le mafie, sia con un’autonoma inchiesta sulla condizione dei giornalisti che subiscono intimidazioni di stampo mafioso, sia interloquendo con i vertici della Rai dopo due discutibili eventi televisivi: le puntate del programma “Porta a Porta” di Bruno Vespa dedicata ai funerali di Vittorio Casamonica (settembre 2015), il boss definito dal proprio clan uno dei “re di Roma” e la presentazione del libro autobiografico scritto dal figlio di Totò Riina intervistato con domande comode nello studio di Vespa (aprile 2016).

Nel primo caso la Commissione ha rilevato come «una gravissima sottovalutazione del fenomeno mafioso da parte del servizio pubblico che un programma di punta della sua cosiddetta rete ammiraglia abbia offerto un prestigioso palcoscenico a chi cercava inaccettabili legittimazioni. Alla figlia e al nipote del capo clan Casamonica è stato permesso di offrire un’autorappresentazione falsa e folcloristica della vasta famiglia mafiosa, che di fatto ne minimizzava la caratura criminale. Non a caso i Casamonica ospiti in studio, hanno sentito il bisogno, il giorno dopo, di ringraziare il conduttore Bruno Vespa». Nel confronto con la Commissione, l’allora direttore di Rai1, Giancarlo Leone, aveva annunciato l’avvio di una riflessione interna all’azienda, riconoscendo la fondatezza delle critiche che erano state mosse.

Tuttavia a distanza di pochi mesi dall’apparizione televisiva dei Casamonica nel salotto di “Porta a Porta” è avvenuto l’altro episodio, ancora più grave. Scrive la Commissione nella sua relazione: «Ignorando gli appelli di numerosi esponenti della Commissione e di tutto mondo dell’antimafia, la Rai mandava in onda un’intervista di Bruno Vespa al figlio di Totò Riina sul libro autobiografico “Riina family life”, ancora una volta nella cornice del salotto buono di “Porta a Porta”». Ai vertici dell’azienda, convocati il giorno dopo la messa in onda dell’intervista, la presidente Bindi ha contestato un’operazione editoriale che aveva visto Salvatore Riina definire il perimetro dell’intervista e condurre il gioco – tanto che la liberatoria venne firmata dopo la registrazione, e non prima com’è prassi – per negare, con un linguaggio omertoso e reticente, il ruolo criminale del padre e la stessa esistenza della mafia. Inoltre, approfittando della prestigiosa vetrina Rai, Riina junior (condannato a otto anni e dieci mesi per associazione mafiosa), come sottolineato dalla presidente Bindi, «ha raccontato menzogne sui pentiti senza essere contraddetto, attaccando il sistema dei collaboratori di giustizia e mandato un messaggio pericoloso e inquietante che ha prestato il fianco al negazionismo del fenomeno mafioso». Ancora dal testo della Commissione: «Questo è riduzionismo della mafia, da cui le organizzazioni criminali di questo Paese traggono forza e consenso sociale».

Ecco: c’è il riduzionismo della mafia e c’è chi invece continua a informare, senza farsi intimidire dai clan. L’Espresso, con Floriana Bulfon e con tutti i suoi giornalisti che si occupano di questi temi, non smetterà mai di seguire la seconda strada.

tratto da: L’Espresso