Mafia, duro colpo al clan dei Casamonica e il legame con le cosche calabresi

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MAXIBLITZ NELLA CAPITALE: 37 MISURE CAUTELARI PER I COMPONENTI DELLA FAMIGLIA E AFFILIATI. 33 GLI ARRESTI ESEGUITI. QUATTRO I RICERCATI

Le accuse della Procura di Roma vanno dall’estorsione all’usura, al traffico di droga

Un clan mafioso a tutti gli effetti, radicato sul territorio, unito da vincoli di sangue e da affari, con un esercito di affiliati e tantissime vittime intimidite con le minacce e sopraffatte dalla paura solo a sentire quel cognome, Casamonica. La Procura della Capitale ha sferrato un duro colpo alla mafia di Roma est, a quella maxifamiglia di sinti italiani arroccata tra l’Anagnina, la Romanina e Porta Furba, dedita ad estorsione, usura, traffico di droga, amante del lusso trash ostentato considerato come un marchio di fabbrica del potere più sfacciato: 33 tra Casamonica e affiliati, compresi i potentissimi Di Silvio e Spada, sono stati arrestati in un maxiblitz che ha decapitato la famiglia. Altri quattro sono ricercati.

Tra gli arrestati il pugile Domenico Spada e 13 donne, potentissime nel clan. E donna è la pentita che ha incastrato il clan che da decenni comanda in un pezzo periferico ma vastissimo di Roma e oltre fino ai Castelli. La donna è l’ex compagna di Massimiliano Casamonica, fratello di Giuseppe, ritenuto il capo dell’associazione: non sarebbe stata mai bene accetta e avrebbe subito comportamenti che abitualmente il gruppo riservava agli estranei. Fuggita di casa dopo essere stata di fatto segregata dalle altre donne della famiglia, ha deciso di collaborare. L’usura era il business forse più evidente, gli interessi erano incassati a suon di minacce e botte: tra le vittime anche il conduttore radiofonico Marco Baldini e uno dei figli di Franco Zeffirelli. Il clan gestiva anche numerosi locali, anche in centro. Sigilli ad una discoteca a Testaccio, un ristorante in zona Pantheon e la palestra a Marino riconducibile a Domenico Spada, boxeur, conosciuto come Vulcano.

Gli arrestati sono ritenuti responsabili, in concorso fra loro e con ruoli diversi, di aver costituito un’organizzazione dedita al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione, usura, concessione illecita di finanziamenti ed altro, tutti commessi con l’aggravante del metodo mafioso. Per gli investigatori il ruolo apicale di promotore era ricoperto da Giuseppe Casamonica, recentemente uscito dal carcere dopo circa 10 anni di detenzione. Arrestato anche un componente della famiglia Strangio: il clan, per l’accusa, prosperava anche grazie al patto con le mafie storiche. Le indagini dei carabinieri del nucleo investigativo di Frascati sono scattate nell’estate 2015 prima dei funerali show alla periferia di Roma di «Zio Vittorio», quelle esequie a Don Bosco tra pioggia di petali di rosa, carrozza e le note del Padrino che furono un’onta per Roma. A quanto accertato, il gruppo poteva contare su una vera e propria “roccaforte” in vicolo di Porta Furba, in zona Appia a Roma, e ramificazioni nelle periferie difficili della città e a Ostia grazie all’alleanza con gli Spada.

Un’organizzazione di «difficile penetrazione» per gli inquirenti anche per la lingua che utilizza, un dialetto sinti che non molti sono in grado di interpretare, capace di stabilire solidi legami con le famiglie più influenti della ’ndrangheta calabrese. Gli affiliati non avevano bisogno di usare la violenza, bastava il solo nome della famiglia Casamonica per farsi rispettare. «Un gruppo molto forte anche per il marchio di origine particolarmente significativo sul territorio romano» ha sottolineato il procuratore aggiunto della DDA di Roma, Michele Prestipino. Le vittime non denunciavano sia per timori di ritorsioni, ma anche perché pagare il “clan” Casamonica rappresentava una sorta di “assicurazione a vita”.

Ieri il blitz con circa 250 carabinieri del Comando Provinciale di Roma, con l’ausilio di unità cinofile e un elicottero impegnati dall’alba fra la Capitale e le provincie di Reggio Calabria e Cosenza per eseguire le misure cautelari in carcere, emesse dal gip di Roma su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia. E dopo il blitz, twitta la sindaca Virginia Raggi, «Ancora una volta insieme per dire #FuoriLaMafiaDaRoma. #nonabbassiamolosguardo. Grazie a ai carabinieri e alla Dda.». Un ringraziamento condiviso anche dal governatore del Lazio, Nicola Zingaretti che ha definito l’operazione «un duro colpo alla criminalità organizzata».

Gli “zingari”

Strade a pedaggio, ville di lusso con leoni di marmo e tigri di ceramica, un dedalo di viuzze dove il nome sui citofoni è sempre lo stesso, Casamonica. Il quartiere generale del clan degli «zingari» è la Romanina, dove a comandare era il «Re» Vittorio. Il boss per il quale l’intera area est di Roma si fermò per un pomeriggio intero, in un torrido agosto del 2015, mentre la banda musicale, costretta, omaggiava la sua scomparsa sulle note del Padrino. La famiglia comanda sull’intera zona, a suon di minacce, violenze ed estorsioni. Rocky, Ringo e Balù sono solo alcuni dei soprannomi di chi il quartiere lo tiene sotto scacco. Dall’Anagnina alla Romanina, da Cinecittà al Tuscolano, chi non si piega ai Casamonica finisce per doversi guardare le spalle. «Qui comandiamo noi», furono le parole che, il giorno di Pasqua, Antonio Casamonica, il rampollo del clan, rivolse al proprietario del Roxy Bar e ad una disabile, aggredendoli ed insultandoli.

Sono stati fermati da una “pentita” – La cognata del boss mai accettata

Ha vissuto per anni all’interno della famiglia Casamonica e quindi è stata «in grado di tracciarne perfettamente l’organigramma». Ha fornito elementi preziosi, ricostruzioni su vicende vissute in prima persona, come testimone oculare. La maxioperazione si basa anche sulle confessioni di un collaboratore di giustizia, il primo nella storia criminale del clan capitolino. Si tratta dell’ex compagna di Massimiliano Casamonica, fratello del boss Giuseppe. La donna, madre di tre figli, era invisa alle mogli degli altri componenti del clan perché non sinti. Tenuta segregata, è riuscita a fuggire da quella realtà e ha deciso di denunciare e collaborare con gli inquirenti.

Ora la “pentita”, che ha meno di 40 anni, gode di un programma di protezione assieme ai figli.

Il legame con le cosche calabresi

di Arcangelo Badolati
La criminalità nomade. Forte militarmente, organizzata su base familiare, padrona d’un linguaggio gergale identitario, scarsamente indebolita dai collaboratori di giustizia. Se non si trattasse del “giorno dei Casamonica” sembrerebbe la perfetta descrizione della criminalità organizzata diventata negli ultimi dieci anni egemone nell’area settentrionale ionica della Calabria. Le analogie sono davvero impressionanti e non è certo un caso. Il nucleo parentale di “don Vittorio” ha sempre avuto buoni rapporti con i calabresi con i quali ha stretto legami connessi al traffico di stupefacenti settore nel quale la ‘ndrangheta è “signora” e “maestra”. Perciò tra le carte dell’inchiesta romana si ritrovano i nomi di due indagati nati nella porzione di territorio compresa tra la Sila e l’Aspromonte: Domenico Strangio, 23 anni, originario di San Luca, e Stefano Spataro, 30, di Rossano. I carabinieri li ritengono stabilmente collegati con i Casamonica. A loro s’aggiunge il collaboratore di giustizia Massimiliano Fazzari, con ascendenze nella Piana di Gioia Tauro, ascoltato dai magistrati inquirenti per capire quali fossero i meccanismi di governo di questa mafia laziale lungamente sottovalutata. Fazzari conosce le dinamiche della cosca romana e ne rappresenta a Michele Prestipino e Giovanni Musarò la compattezza granitica, la rigida gerarchizzazione, la violenza di cui è capace. Come tuttora accade nel Cosentino anche nella cintura capitolina i membri del clan occupano abusivamente alloggi popolari o attrezzano le loro abitazioni con sfarzosi arredamenti che definire kitsch è un eufemismo. Quattro anni addietro i pm della Dda di Roma scoprirono l’esistenza d’un progetto d’investimenti che i malavitosi di Porta Furba intendevano attuare in Calabria nell’Alto Tirreno: il gancio era un faccendiere legato al gruppo di Muto di Cetraro ma l’affare non trovò sbocco perchè il “compare” venne arrestato. Oggi i Casamonica – che nell’agosto del 2015 vollero, sconfinando nel ridicolo, per il “patriarca” Vittorio un funerale degno di grandi boss della ‘ndrangheta come Antonio Macrì e Mommo Piromalli – sono ufficialmente riconosciuti alla stregua d’un clan mafioso. Forse, in fondo, era quello che volevano quando chiesero alla banda musicale d’intonare le note de “Il Padrino”.

L’invito al dialogo che i carabinieri fecero arrivare al boss Totò Riina, dopo la strage di Capaci, sarebbe l’elemento di novità che indusse Cosa Nostra ad accelerare i tempi dell’eliminazione di Paolo Borsellino. Lo sostengono i giudici della corte d’assise di Palermo che hanno depositato le motivazioni delle condanne a Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utrie dell’assoluzione per Mancino, il 20 aprile scorso, nel processo sulla cosidetta trattativa Stato-mafia. «Ove non si volesse prevenire alla conclusione dell’accusa che Riina abbia deciso di uccidere Borsellino temendo la sua opposizione alla `trattativa´ conclusione che peraltro trova una qualche convergenza nel fatto che secondo quanto riferito dalla moglie, Agnese Piraino Leto, Borsellino, poco prima di morire, le aveva fatto cenno a contatti tra esponenti infedeli delle istituzioni e mafiosi, – scrivono – in ogni caso non c’è dubbio che quell’invito al dialogo pervenuto dai carabinieri attraverso Vito Ciancimino costituisca un sicuro elemento di novità che può certamente avere determinato l’effetto dell’accelerazione dell’omicidio di Borsellino, con la finalità di approfittare di quel segnale di debolezza proveniente dalle istituzioni dello Stato e di lucrare, quindi, nel tempo dopo quell’ulteriore manifestazione di incontenibile violenza concretizzatasi nella strage di via d’Amelio, maggiori vantaggi rispetto a quelli che sul momento avrebbero potuto determinarsi in senso negativo».