Il mito fondativo della ’ndrangheta inventato da una scrittrice tedesca di Arcangelo Badolati

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SI CHIAMAVA IRENE DE SUBERWICK, ERA BERLINESE, SCRIVEVA IN SPAGNOLO E SI FIRMAVA COME VICTOR DE FEREAL

Nell’Ottocento creò letterariamente la “Garduña” cui s’ispirano le leggende dei clan

di Arcangelo Badolati

È legata a Miguel de Cervantes, ad una scrittrice tedesca ed alla Spagna la nascita della simbologia e della fantasiosa storia della mafia calabrese. La donna misteriosa e geniale che aleggia sul mito fondativo della più potente organizzazione criminale del meridione d’Italia era una nobile, cresciuta in uno splendido palazzo che guardava austero l’Havel scorrere dall’altra parte della strada. La donna amava Miguel de Cervantes, lo scrittore spagnolo finito per un periodo schiavo dei saraceni e adorava, ancor di più, l’Andalusia, la Castiglia e La Camancha.

Le guerre contro gli arabi, l’eroismo dei condottieri iberici, la grandezza dei possedimenti situati al di là degli oceani, la affascinavano fino al punto di voler visitare, travestita da uomo, Madrid, Toledo e Siviglia espressione d’un mondo che l’aveva completamente conquistata. Lei, figlia di una contessa legata alle famiglie imperiali germaniche e d’un alto ufficiale di cavalleria prussiano di origini altrettanto antiche e nobili, aveva nel sangue il gusto per l’avventura e il fuoco per la conoscenza. Irene de Suberwick – così si chiamava – luterana e anticlericale, coltivava anche un desiderio di giustizia e di equità sociale: era stanca delle comodità e dei benefici di cui godevano quelli del suo ceto. Inorridiva di fronte ai soprusi subiti dalla povera gente in fila per ottenere un tozzo di pane, costretta a vivere in stanze umide e fredde d’inverno e bollenti d’estate, oppure in baracche o case cadenti sparse in giro per una città resa celebre dalla dissolutezza dei suoi Principi e dalla corruzione delle loro corti.

Dalla finestra del suo balcone la futura scrittrice guardava l’acqua dell’Havel scorrere perpetua e immutabile come quel mondo di ipocrisie e adulazioni che la circondava. Lei immaginava altro e la sua fantasia cresceva e spaziava man mano che affondava gli occhi e la mente negli scritti di quello straordinario inventore di personaggi iberici come don Chisciotte: de Cervantes era stato militare, poeta, romanziere e drammaturgo. È pensando a lui, alle storie che aveva costruito, che decise perciò di dar corpo e struttura compiuta ad una setta – la Garduña – come quelle davvero esistite in Spagna dal 1400 in avanti, composta da uomini capaci di andare a braccetto con la morte. Uomini uniti da un comune giuramento, una medesima religiosità, un uguale coraggio ed una sottile astuzia che consentivano, a ciascuno di loro, d’essere potere e contropotere. Irene de Suberwick li immagina vincolati al silenzio e ossequiosi delle interne gerarchie, intenti a tramare nell’ombra e colpire duramente i nemici con la stessa ferocia con la quale trafiggevano i traditori. Una setta pronta ad intervenire quando si trattava di punire i prepotenti e proteggere gli indigenti, alimentata da un cultura di segretezza e da una cassa comune rifornita dai capitali sottratti attraverso mirate azioni criminose. Una setta con un principio fondativo inviolabile sintetizzato in quattro piccole affermazioni indicative: “Buen ojo, buen oido, buenas piernas y poca lingua” (buon occhio, buon udito, buone gambe e poca lingua)…

E allora, legando all’invenzione di Irene de Suberwik ed a Toledo, città della Castiglia dove la scrittrice collocò la fondazione, nel 1417, della Garduña, si giunge con facilità a comprendere l’origine del mito fondativo della mafia calabrese. La strutturazione interna ed i rituali della setta immaginata dalla scrittrice berlinese sono stati mutuati, nel tempo, dalle organizzazioni criminali meridionali. Un documentatissimo volume del 2006 di due importanti storici iberici, Leon Arsenal e Hipolito Sanchiz, dal titolo “Una historia de las sociedades secretas españolas”, confuta in toto e in via definitiva l’esistenza reale dell’antica consorteria criminale. E non esistono, peraltro, processi o documenti che attestino giudiziariamente l’attività sul campo della fantomatica Garduna di cui parla invece solo lei e per la prima volta, con dovizia di particolari, nel vecchio testo del 1844 – Misterios de la Inquisicion Española y otras Sociedades Secretas – pubblicato a Parigi e scritto ufficialmente con lo pseudonimo Victor de Fereal. Uno pseudonimo dietro cui la de Suberwick amava celarsi.

L’intuizione letteraria dell’autrice tedesca, che usava un nome maschile iberico e scriveva in spagnolo in ossequio all’amore culturale provato per de Cervantes, è legata proprio a “Rinconete y Cortadillo”, novella del grande autore castigliano in cui è narrata la storia di due ladri apprendisti ammessi alla feroce confraternita di Monopodio attiva a Siviglia. Una confraternita nella quale i componenti si spartivano i profitti, corrompevano la polizia e il clero per guadagnarsi l’impunità e utilizzavano un preciso codice linguistico e gergale per comunicare. Cervantes racconta che i novizi erano chiamati “fratelli minori”, mentre i più attempati e abili compagni di malefatte “fratelli maggiori”. La setta era insomma strutturata in due nuclei, proprio come lo era la Garduña secondo la scrittrice e come lo sono oggi le cosche della ’ndrangheta, i cui “locali” sono costituiti dalla “società minore” e dalla “società maggiore”. Della prima fanno parte picciotti e “sgarristi”, dell’altra i quadri dirigenti dell’associazione mafiosa. Le analogie tra la setta sivigliana di Cervantes, l’inventata Garduña della de Suberwick e la ’ndrangheta sono diventate, dal Novecento in avanti, sempre più evidenti. Se dunque la Garduña non è davvero mai esistita come sostengono gli storici iberici ed è frutto solo di una “invenzione” letteraria, essa è stata evidentemente assunta, come abbiamo detto, alla stregua di un lontano ed efficace mito fondativo evocato attraverso l’utilizzo dell’immagine metaforica e suggestiva dei “tre cavalieri” spagnoli citati nei “codici” delle ’ndrine. Si deve, dunque, ad una nobile e curiosa intellettuale germanica che fingeva d’essere uno scrittore spagnolo, la nascita della “tradizione” della mafia nostrana. Un beffardo paradosso storico e culturale se consideriamo quanto l’«ominità» abbia invece caratterizzato e caratterizzi la ’ndrangheta.

Eventi e numeri

Determinante è stata la contestuale riconversione della sede storica della Filanda adibita ad eventi temporanei, suggellata dall’enorme successo della mostra, conclusa il 5 marzo 2017, “Mediterraneo Luoghi e Miti Capolavori del Mart, fra le più significative rassegne d’arte moderna e contemporanea mai realizzate in Sicilia, mentre la serie di iniziative di grande attrattività come l’adesione alle Vie dei Tesori (23 settembre), alla giornata del Famu (8 ottobre), alla giornata Arte & Scienza ARAR, il rapporto produttivo con le scuole attraverso il corso di aggiornamento per i docenti e le guide, dedicato nel 2017 al “il clima culturale intorno alla figura di Antonello da Messina”, i tanti progetti di alternanza scuola lavoro, i tirocini universitari , la speciale attenzione per i fruitori diversamente abili attraverso accordi con le Associazioni messinesi impegnate nel sociale, la concessione dei locali per manifestazioni di grande prestigio hanno contribuito ad una crescente affermazione della struttura, meta sempre più privilegiata negli itinerari turistico culturali.

Nel 2017 in 40.000 hanno visitato il Museo, e il trend ha registrato un evidente incremento nei mesi successivi all’inaugurazione del 17 giugno (in estate triplicate le presenze rispetto alla stagione precedente), con punte ricorrenti di 1 migliaio di visitatori nelle domeniche di gratuità.

Intensa anche l’attività scientifica e di restauro con interventi sulle opere esposte, sui manufatti lapidei collocati all’esterno, e collaborazioni istituzionali con Enti di ricerca.

Il MuMe Museo Regionale di Messina potrà essere sempre visitato 6 gennaio del 2018 in orario antimeridiano (9/13,00, ultimo biglietto 12,30).