La pirateria digitale continua a prosperare, dopo che la riforma del copyright è stata rimandata a settembre dal Parlamento europeo, su pressione dei big di Internet e dei teorici della libertà della Rete. Alimentata da organizzazioni criminali sempre più potenti e ramificate, la pirateria è un flagello che colpisce duramente gli autori – scrittori, registi, musicisti – e l’industria della cultura: editori, produttori di materiali musicali, film e serie televisive. Di recente è stato calcolato da Ipsos per Fapav, la federazione contro la pirateria audiovisiva: il 37 per cento degli adulti italiani ha fruito illecitamente di film e serie tv nel 2017, con circa 631 milioni di atti di pirateria compiuti, cifra che non tiene conto del live streaming degli eventi sportivi e dell’accesso illegale ai contenuti televisivi attraverso appositi decoder.
La relazione Baruffi del 2017, atto finale della commissione parlamentare d’inchiesta su contraffazione e pirateria della scorsa legislatura, ha evidenziato come in Italia ogni giorno le visioni abusive sopravanzano quelle legali. Come se in uno stadio da 80 mila posti, ben 50mila spettatori non pagassero il biglietto per vedere un concerto dei Radiohead.
In assenza della riforma, dunque, continua a valere il principio dell’irresponsabilità degli operatori di internet e delle telecomunicazioni, sancito dalla direttiva europea sul commercio elettronico del 2000, secondo cui questi soggetti non hanno l’onere di verificare il traffico di informazioni sulle proprie infrastrutture. Si attiverebbero solo su segnalazione dei titolari dei contenuti d’autore per rimuovere quelli distribuiti illegalmente. Un sistema che non regge più, perché sono miliardi i prodotti creativi continuamente caricati in rete dai pirati e dal pubblico degli utilizzatori: solo su YouTube, ogni minuto sono postate circa quattrocento ore di contenuti audiovisivi. Per questo motivo, la nuova direttiva sul copyright prevede che operatori come Google o Facebook si dotino di strumenti automatici per controllare la circolazione dei contenuti protetti dal diritto d’autore.
Il rinvio di questa soluzione, dunque, continua a far fiorire il business della pirateria, che in Italia vale almeno sei miliardi di euro all’anno – quasi la metà del fatturato del traffico degli stupefacenti, 14 miliardi di euro nel 2017 – a danno degli autori e dei prodotti culturali: musica, libri, giornali. Un modello complesso, articolato, basato su entrate di natura pubblicitaria – vale a dire motori di ricerca e siti pirata ospitano a pagamento i messaggi promozionali – accessi a pagamento ai siti e alle applicazioni illegali e gli introiti derivanti dalla vendita dei set-top-box illegali e dall’utilizzo abusivo delle pay tv.
Un fiume di denaro, realizzato a danno dell’industria creativa. Nel silenzio generale, considerato che intorno a questo fenomeno non sembra esserci alcuna disapprovazione sociale, come denuncia Paolo Genovese, regista del film campione di incassi “Perfetti sconosciuti”. «In molti non si rendono conto della situazione, anche perché i siti pirata sono graficamente attraenti e ben organizzati. Addirittura catalogano i film per generi, paesi o registi e contengono le rispettive critiche. Meglio di Netflix, ma a costo zero. Un fatto devastante, perché a causa di questa perfetta apparenza non siamo in condizione di spiegare ai nostri figli che questi percorsi sono illeciti. È necessario il lavoro culturale e quello delle forze dell’ordine», riflette il regista.
STORIE CRIMINALI
Alcune storie raccontano bene questo fenomeno. Nella notte tra il 15 e il 16 maggio scorsi 150 uomini del Nucleo di polizia economico finanziaria della Guardia di Finanza e forze di polizia svizzere, tedesche e spagnole, hanno smantellato un’organizzazione criminale che decriptava i segnali televisivi di Sky e Mediaset Premium per commercializzare il servizio ai “clienti” che vogliono vedere l’ultima serie del “Trono di Spade”. Una gang talmente efficiente, che la Procura di Roma nell’ordinanza di custodia cautelare ha scritto che essa detiene «una capacità organizzativa importante in grado di fornire servizi del tutto analoghi a quelli delle aziende lecite, dalle verifiche di fattibilità all’installazione del servizio, alla loro fornitura con standard adeguati fino all’assistenza tecnica alla clientela».
Malavita organizzata, come affermato dalla guardia di finanza. Dopo alcune ricerche siamo riusciti a conversare con un affiliato, che ha dichiarato: «Prima lavoravo negli stupefacenti, ma non essendo giovane è diventato troppo rischioso. Sono un esattore, riscuoto gli abbonamenti dai clienti». E questi pagano soddisfatti le loro quote mensili. In Italia, secondo uno studio Doxa/Politecnico di Milano del 2017, vi sono almeno 800mila utilizzatori abituali di servizi televisivi illegali, ma, secondo Sky, la cifra si attesta intorno al milione e mezzo.
In queste settimane ha fatto notizia anche un’ordinanza del Tribunale di Milano, che ha emanato un ordine nei confronti dei fornitori della connessione a internet, da Tim a Vodafone, per bloccare l’accesso a un sito che distribuiva illegalmente contenuti editoriali di Mondadori e automaticamente a tutti i siti “alias” a esso collegabili, messi a disposizione degli utenti dalla stessa organizzazione sotto altri nomi. Quel portale si era sfacciatamente dato una missione, scrivendo sul suo portale: «La battaglia contro di noi è persa in partenza. Il nostro sito rimane sempre online sotto qualsiasi nome, disegno e dominio. Oscurato un dominio ne facciamo 100mila al suo posto».
Mentre in Italia i controlli risultano ancora sporadici, in Gran Bretagna qualcosa si muove. Per i contenuti sportivi, protetti dal copyright, la Premier League e i maggiori internet provider britannici hanno trovato un accordo, che è stato reso esecutivo dall’Alta Corte di Giustizia di Londra. Durante il corso delle partite che si disputano nella stagione, sistemi informatici intercettano i siti che permettono lo streaming illegale degli incontri, che vengono disattivati automaticamente attraverso il blocco degli indirizzi IP, l’etichetta numerica che identifica e rende operativi i siti internet. Questo ha consentito la chiusura di circa 6mila siti pirata in meno di un anno, con la soddisfazione della stessa British Telecom che ha investito centinaia di milioni di sterline per acquisire i diritti di trasmissione online delle gare calcistiche.
TECNOLOGIE AVANZATE
I pirati sono tecnologicamente avanzati e hanno fantasia: oltre i tradizionali portali “torrent” e “peer-to-peer,” sono operativi i “cyberlocker”, piattaforme nate per scopi legali – conservazione di dati in remoto e trasferimento di file – diventate successivamente un vero e proprio paradiso per i contraffattori. Vi sono i Cdn (“content delivery network”), sorti per la protezione dagli attacchi informatici e il miglioramento delle performance dei siti, quindi diventati il miglior strumento per mascherare l’identità degli amministratori di quelli pirata. In grande ascesa è lo “stream ripping”, vale a dire la sottrazione, attraverso siti o applicazioni dedicati, della musica dai video caricati sulle piattaforme come YouTube. E non ha flessioni il “camcording”, l’illecita registrazione audio o video di un film in sala, fenomeno che colpisce nove film su dieci.
Inoltre, come spiega Luigi Smurra, colonnello della guardia di finanza, sono operative in luoghi segreti «le centrali “sorgenti”, dove sono installate apparecchiature informatiche per decriptare il segnale delle emittenti pay-tv, utilizzando schede regolarmente acquistate, per poi farlo confluire su server esteri appositamente noleggiati». E la lista è inesauribile perché i sistemi illegali si adeguano all’avanzamento tecnologico.
ARMI SPUNTATE
Internet è quindi un ambiente violato, dove soggetti criminali operano in un habitat molto favorevole mentre ai titolari dei diritti d’autore, secondo l’attuale normativa, non rimane altro che dotarsi di costose strutture antipirateria, collaborare con le forze di polizia e rivolgersi ai tribunali e all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni per ottenere la rimozione dei contenuti che circolano illegalmente. L’Autorità, da quando opera nella tutela del copyright, si limita a bloccare il nome di dominio (“Dns”) dei siti pirata, mai avendo disposto – nonostante sia in suo potere – il loro oscuramento attraverso il blocco degli indirizzi IP. Una posizione anacronistica, non condivisa dalla filiera culturale, come fa notare il presidente dell’Associazione italiana editori (Aie) Ricardo Franco Levi. «È essenziale che le disposizioni di blocco dei siti pirata siano estese anche agli indirizzi IP, per evitare che pochi istanti dopo il blocco del Dns i gestori del sito pirata lo aggirino semplicemente cambiando la denominazione», sottolinea.
GOOGLE PIGLIATUTTO
L’assetto attuale favorisce anzitutto gli operatori di internet che catalogano, indicizzano, e suggeriscono i contenuti, incrementando ogni giorno il tesoro dei dati personali raccolti, pianificando le inserzioni pubblicitarie e incassando i relativi introiti. Google è il più chiaro esempio di piattaforma non “neutrale”, anche se afferma che «i contenuti generati dagli utenti rappresentano una nuova e significativa fonte di ricavi» per il comparto della cultura. In effetti, il motore di ricerca americano si è dotato di un meccanismo di riconoscimento dei contenuti con uno strumento che si chiama “Content ID” che permette di gestire automaticamente il 98 per cento dei diritti dei titolari dei prodotti musicali che circolano su YouTube, che appartiene a Google.
Ma quest’ultimo sfrutta la sua posizione di monopolista non condividendo il proprio meccanismo con l’intera industria creativa e per pagare con una mancia i lavori artistici che ospita sulle sue piattaforme. Secondo l’Ifpi, federazione internazionale dei produttori discografici, ogni utilizzatore di YouTube genera un’entrata annuale a favore dell’industria musicale pari a un dollaro, contro i 20 che derivano dall’utente di Spotify nello stesso periodo.
PUBBLICITÀ ONLINE
In attesa della riforma europea del copyright e dell’improbabile adozione di scelte condivise tra i player del mercato, non resta che migliorare gli strumenti disponibili contro le organizzazioni criminali che agiscono nel settore. Giangiacomo Pilia, sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, afferma che «la pubblicità online è una delle principali fonti di reddito per i siti pirata, la maggior parte dei quali si trova all’estero. Attualmente è possibile risalire a tali flussi finanziari attraverso la consultazione di banche dati estere e con il supporto di organismi internazionali, quali la Financial Intelligence Unit, che si può contattare tramite la Banca d’Italia e soprattutto l’Eurojust». Per questo servono forze dell’ordine, inquirenti e giudici specializzati. Esigenza raccolta dal Consiglio superiore della magistratura: come annunciato dal vice presidente, Giovanni Legnini, svolgerà un’attività di formazione specifica dei magistrati per il contrasto dei reati legati alla pirateria «sulla base delle innovative misure sull’organizzazione degli uffici giudiziari emanate dal Csm negli ultimi due anni, tutte improntate a favorire la specializzazione delle sezioni e dei gruppi di lavoro negli uffici sia giudicanti che requirenti».
Soluzioni necessarie, ma con ogni probabilità non sufficienti. Per contrastare un fenomeno così grave e vasto, infatti, servirebbe la presa di coscienza degli utilizzatori dei contenuti creativi. I quali, va ricordato, possono essere ritenuti penalmente responsabili quando scaricano abusivamente in rete o accedono ai servizi televisivi illegali, come confermato definitivamente da una sentenza della Corte di Cassazionedello scorso anno. Non è realistico punirli tutti, ma vanno sperimentati metodi efficaci affinché il pubblico maturi la consapevolezza sul disvalore della pirateria. E accolga il principio chiave per l’affermazione della funzione culturale: lo sforzo di autori e produttori va remunerato per garantire pluralismo, approfondimento e intrattenimento di qualità.