Storie di donne e storie di mafie di Ludovica Luongo

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Lo scopo della mia tesi è stato analizzare il ruolo delle donne nei sistemi criminali quali Camorra, ‘Ndrangheta e Cosa nostra. La presenza femminile in questi settori è stata per molto tempo sottovalutata, in quanto è da sempre luogo comune considerare gli stessi come esclusivamente maschilisti, nonché patriarcali.
Il ruolo delle donne nelle varie organizzazioni è condizionato dalla storia di queste ultime e la loro entrata non più da partecipi, ma da protagoniste dei delitti di associazione mafiosa è collegata all’esistenza di un momento patologico dell’organizzazione criminale, il pentitismo attraverso il quale le mogli dei boss arrestati, latitanti o pentiti sono state coinvolte personalmente. Inoltre, l’applicazione dell’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario costituisce la prova provata di una realtà mafiosa femminile.
In Cosa nostra le donne partecipano al clan in maniera subordinata ai maschi, acconsentendo alla violenza esercitata su altri ed eventualmente su loro stesse, eppure troviamo sette donne accusate di attività mafiose nel processo della mafia delle Madonie nel 1927 e quattro nel maxi processo di Palermo del 1986.
La ‘Ndrangheta prevede una particolare sezione femminile, nonostante la proibizione per le donne di partecipare all’organizzazione mediante rito di iniziazione: si tratta della “Sorella di omertà”, una carica formale attribuita alle donne riconosciute particolarmente meritevoli. Pertanto, le donne di ‘ndrangheta partecipano alle attività mafiose senza essere formalmente affiliate.
Differente è il caso della Camorra, in cui la presenza femminile risale alle origini della stessa: fin dall’ottocento la donna ha svolto attività illegali come il controllo di attività clandestine e la vendita delle sigarette di contrabbando, giungendo sino alla gestione di interi settori criminali.
Bisogna mettere da parte come stereotipo la polarizzazione tra uomini aggressivi dediti alla violenza e alla guerra da una parte, e le donne pacifiche riproduttrici della vita dall’altra. Si può avanzare l’ipotesi che, le donne di mafia, proprio perché abituate alla violenza nelle relazioni tra gli affiliati e fra loro e il mondo che le circonda, rappresentino un forte capitale sociale per le organizzazioni criminali. Sono stati tanti i delitti d’onore provocati o incoraggiati dalle donne, in quanto la vendetta era l’arma a portata di mano e una loro tradizionale maniera per amministrare la giustizia.
In tale prospettiva, è fondamentale considerare il fenomeno del pentitismo femminile, ovvero quella tendenza comportamentale in base alla quale un membro di un clan criminale decide di rilasciare dichiarazioni alle autorità competenti tali da permettere alle medesime di prendere misure adeguate per combattere le stesse organizzazioni, ottenendo in cambio delle riduzioni di pena. Sono tante le donne che hanno contribuito a rendere decisiva la scelta dei loro familiari di collaborare e altrettanto numerose quelle che hanno preso le distanze dai loro parenti. Le stesse donne che, invece, hanno deciso in prima persona di collaborare lo hanno fatto essenzialmente per i figli o per amore.
E’ il caso di Giuseppina Pesce, appartenente al clan di Rosarno, in Calabria, la quale scelse definitivamente nel 2010 la via della collaborazione e del pentimento, allontanandosi dalla propria famiglia d’onore per consentire ai figli un futuro migliore e diverso dal proprio.
Giuseppa Vitale, prima donna cui la procura di Palermo contestò il reato per associazione mafiosa nel 1998, decise di collaborare nel 2005 per i figli e per amore nei confronti di un altro detenuto. La stessa, contrariamente alla Pesce, affermò pubblicamente di non pentirsi, poiché considerava il pentimento una condotta inutile e non produttiva nei confronti delle vittime a cui sia lei che il clan di appartenenza avevano inflitto duri colpi.
Più singolare è il caso di Cristina Pinto, la donna killer della Camorra, la quale ha scontato dal 1992 al 2004 ventidue anni di carcere a Pozzuoli, in provincia di Napoli, per reati quali associazione mafiosa, tentato omicidio, traffico illecito di armi e stupefacenti. La Pinto non si è mai pentita, ha chiesto pubblicamente scusa per i reati, come quello concernente il traffico illegale dei rifiuti, e ha altresì ammesso di dissociarsi dalla Camorra per proteggere la figlia che al suo arresto aveva due anni.
Le donne appartenenti alle cosche criminali italiane potrebbero dare un importante contributo alla società intensificando il percorso antimafia e sollecitando altri soggetti che non hanno volontà forte a tal punto da staccarsi in modo definitivo dal mondo malavitoso cui fanno parte. La mafia non è invincibile, ma assecondarne l’iter criminis e condividerne il modus operandi con condotte omertose, può renderla tale per molto altro tempo ancora.

Fonte: mafie.blogautore.repubblica.it

*Ludovica Luongo – Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli, relatore professore Isaia Sales