Mafia, ecco con quali trucchi i boss aggirano il 41 bis

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Il carcere duro previsto per isolare i capi dagli affiliati a piede libero viene sempre più spesso dribblato grazie a una serie di accorgimenti. E così si tradisce l’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Non appena il mafioso Alessandro Piscopo arriva alle porte della sua Vittoria, tra le serre del ragusano, si verifica un evento miracoloso: suo fratello, a letto per un intervento al cuore, si alza e se ne va al bar. Per 
il boss è un giorno speciale. Gli è concesso di lasciare il carcere dell’Aquila, dove è sottoposto al regime del 41bis per stringere a sé il parente malato. Lui però non si trova.

La lunga attesa e la preoccupazione terminano davanti all’apparizione: eccolo spuntare da dietro l’angolo, sulle sue gambe. Pronto ad abbracciarlo in mezzo a curiosi e compari scesi in strada. Sono in tanti e la scorta della polizia penitenziaria non riesce a tenerli lontani. Il rischio era noto, nella zona 
ci sono molti pregiudicati agli arresti domiciliari, ma il magistrato di Sorveglianza di fronte all’emergenza familiare ha accordato il permesso.

I 727 capimafia detenuti tornano sempre più spesso a casa. Solo l’anno scorso è accaduto 31 volte, con un costo per lo Stato di oltre mezzo milione di euro. È un loro diritto ed è tutto regolare, ma tra un crescente numero di istanze e ricorsi, i trattamenti appaiono sempre meno omogenei. La norma più odiata dalla criminalità organizzata è essenziale nella strategia di contrasto, ma ha posto delicati problemi di compatibilità costituzionale e presenta modalità esecutive diverse, a volte contraddittorie con le finalità preventive.

L’attuale efficacia del carcere speciale, introdotto dopo le stragi del 1992 per impedire di comunicare all’esterno e continuare a guidare l’organizzazione, finisce così per tradire l’insegnamento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Quando il boss della ’ndrangheta Salvatore Pesce, arrestato nell’agosto del 2011 dopo una lunga latitanza, torna a Rosarno ad attenderlo trova una processione di fedelissimi.

Gli concedono un permesso per far visita alla figlia e vedere solo i familiari. Sua cognata però ha bisogno di parlargli e poco importa se non risulta nello stato di famiglia, in dieci minuti il suo nome è stampato su un certificato appena rilasciato dal comune. Vale due ore di colloquio in libertà. Un’ora invece quella data a Domenico Gallico per incontrare la madre novantaduenne in cattive condizioni di salute. Lei è stata condannata all’ergastolo per mafia. Lui di ergastoli ne ha collezionati sette. Negare il permesso renderebbe inumana la pena, ma Gallico è considerato un detenuto pericoloso. 
Nel 2012, dopo aver ottenuto con un pretesto di essere interrogato, ha teso un agguato massacrando di botte il pubblico ministero Giovanni Musarò.

Dal 1990, pur stando in carcere, ha continuato inoltre a coordinare l’attività della cosca fino al 2013 e lo ha fatto servendosi proprio dei familiari. La madre del resto, durante uno dei colloqui con un altro dei suoi figli, 
s’è fatta tramite nel dare l’ordine di commettere un omicidio. Dopo cinque giorni viene ammazzato l’autotrasportatore Antonio Surace; ucciso per dare un segnale alla ‘ndrina rivale su chi debba riscuotere il pizzo della Salerno-Reggio Calabria.

Un quadro allarmante. Per questo gli investigatori sottolineano il pericolo di farlo entrare nella villa di Palmi, nei cui sotterranei era stato ricavato un bunker e dove vive anche il fratello Carmelo, già latitante e ora sorvegliato speciale. A lui Domenico comunica la lieta notizia dell’arrivo, avvertendolo «di non farsi trovare impreparati, di non aspettare l’ultimo momento». Tra ricorsi e opposizioni, sospetti pericoli di fuga 
e di azioni eclatanti, alla fine 
il permesso è accordato.

Carte bollate e curiose concessioni. Ignazio Ribisi, boss di Palma di Montechiaro, può far visita alla moglie 
e per l’occasione portare con sé una colomba pasquale e un litro e mezzo di coca cola. Peccato che non si possano portare liquidi in cabina e ai detenuti sia vietato mettere in stiva il bagaglio. Alla fine Ribisi è costretto a presentarsi a mani vuote, ma per fortuna trova la tavola imbandita a festa, nonostante 
il suo arrivo, per motivi di sicurezza, debba essere a sorpresa. Una detenzione a due velocità. Da una parte carceri sovraffollate con detenuti comuni ammassati in strutture fatiscenti, suicidi e sofferenze e dall’altra persino privilegi culinari dal sapore particolare: solo cibi crudi per Pietro Ligato di Pignataro Maggiore, la città nota come la “Svizzera dei clan”.

Lui, figlio del boss che ha ucciso il fratello del giudice Ferdinando Imposimato, s’è dichiarato crudista, anche se da casa gli hanno spedito prelibatezze campane ben cotte e lui stesso ha tentato di comprare confezioni di “Quattro salti in padella”.

Un capo della ’ndrangheta che per mesi s’era nascosto in un bunker sotto terra in carcere invece si è scoperto claustrofobico. Secondo l’attestazione medica la cella gli provoca problemi di salute, non deve quindi essere chiusa 
e per i trasporti meglio utilizzare un’ambulanza anziché uno scomodo furgone blindato come tutti gli altri.

Non mancano poi i colpi d’astuzia: una sim cucita all’interno dell’elastico dei boxer, il micro telefono nascosto all’interno di un pacchetto (sigillato) di sigarette e il carica batterie in un doppio fondo della bomboletta, sotto la schiuma da barba. È il pacchetto per comunicare in libertà di Vincenzo Cirillo, fiancheggiatore del clan Setola. Gliel’hanno trovato nel corso della perquisizione d’ingresso 
dal carcere di Ariano Irpino a quello 
di Spoleto.

Del resto i detenuti sottoposti al 41 bis sono distribuiti in 11 istituti, ma solo quello di Bancali a Sassari permette di rispettare le regole. Il regime di carcere speciale impone che siano ridotti i contatti con l’esterno e che l’”ora d’aria” avvenga all’interno di un gruppo di quattro persone. Ad esclusione di Sassari, le celle però sono una di fronte all’altra e in alcune strutture, come a l’Aquila, per 52 gruppi di socialità ci sono solo 11 passeggi utilizzabili. Diventa quindi molto complicato ottenere il rispetto delle imposizioni per gli agenti del Gruppo Operativo Mobile. Il reparto dedicato a sorvegliarli dal 2015 è stato progressivamente impoverito: non ha più autonomia contabile e l’organico è stato ridotto 
a 592 unità.

Per evitare forme di arbitrio, misure impropriamente afflittive e regolamentare in modo omogeneo l’applicazione, lo scorso ottobre il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap) è intervenuto con una circolare. Stabilisce ad esempio che possano esserci colloqui con i figli e nipoti minori di 12 anni senza vetro divisorio, che il direttore dell’istituto risponda entro termini ragionevoli alle istanze, limita le forme invasive di controllo ai soli casi in cui ciò sia necessario ai fini della sicurezza.

Un passo in avanti significativo, eppure se da una parte delinea un livello di dettaglio estremo in alcune prescrizioni, altre presentano un’applicazione poco chiara. Restano così dubbi nel caso dei colloqui con i garanti. Per quello nazionale sono previsti incontri senza limiti di tempo, senza preavviso e senza registrazione. Ma ci sono anche 
i garanti regionali. Accade così che 
il camorrista, Umberto Onda, reggente del clan Gionta di Torre Annunziata abbia ottenuto l’autorizzazione dal giudice di Spoleto. Il Dap si è opposto, ma la magistratura di Perugia ha confermato la decisione e nell’attesa 
di un parere della Cassazione, ha avuto il suo colloquio con il garante di Umbria e Lazio. Non è andata bene invece 
al padrino Salvino Madonia, il sicario 
di Libero Grassi. Prima Viterbo e poi Roma hanno negato l’incontro con 
lo stesso garante.

Disparità, anomalie, ricorso continuo 
ai tribunali di Sorveglianza e il vero obiettivo del 41 bis che viene perso 
di vista: non è una pena aggiuntiva, ma uno strumento teso a isolare i boss, separandoli dal resto dell’organizzazione per ridurne 
il potere criminale.

Tratto da: Espresso